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Immagine di Chat-GPT |
Il risultato, qui sotto, è in una forma compatta di 15 capitoli e un Epilogo. In realtà ChatGPT mi ha proposto i capitoli uno per uno sottoponendoli al mio giudizio e chiedendomi di volta in volta se volevo una maggiore estensione e su quali temi. Cosa che in qualche caso ho fatto.
Non sono un critico letterario, ma la lettura è interessante e, soprattutto, molto divertente.
Naturalmente la prima domanda che ci si fa è questa: Quanto si avvicina la IA allo stile di scrittura di Italo Svevo?
La risposta non è semplice e può essere solo il frutto di una analisi stilistica e critica di altissima professionalità. Per quello che mi compete potevo solo sottoporre la "trascrizione/ricomposizione" alla valutazione di un test di Distanza intertestuale: una procedura normalmente utilizzata nella attribuzione automatica dei testi letterari [info: Mattia Bernardini, Originalità della traduzione letteraria: una questione di distanze].
Il test lo trovate spiegato in dettaglio in questo link. Il risultato, in sintesi, è che Il vegliardo di ChatGPT dal punto vista statistico-matematico si avvicina al romanzo La coscienza di Zeno e agli altri due romanzi di Italo Svevo più che agli altri romanzi che ho inserito nell'analisi, in particolare ai testi di Gabriele D'Annunzio, Grazia Deledda e Matilde Serao. Qualche maggiore prossimità si individua con Luigi Pirandello.
Ognuno tragga le conclusioni che preferisce.
Io: ChatGPT, assumi il ruolo di un esperto di letteratura italiana del periodo modernista, in particolare di Italo Svevo. Devi essere professionale e molto attento allo stile dello scrittore triestino.
ChatGPT:
Certamente. Assumerò il ruolo di un esperto di letteratura italiana del periodo modernista, con particolare attenzione all’opera di Italo Svevo. Mi muoverò dunque in un registro professionale, filologico e critico, ponendo attenzione non solo alla forma, ma anche allo stile e alle implicazioni culturali del contesto triestino in cui Svevo è nato e ha scritto.
La prosa sveviana, volutamente antiletteraria, procede per accumulo, per digressione, con un lessico che spesso conserva tracce del plurilinguismo triestino: inflessioni tedesche, echi yiddish, residui di un italiano non ancora del tutto interiorizzato come lingua madre. Ciò produce uno stile che rifiuta l’eleganza levigata e opta per una scrittura “imperfetta”, aderente all’indeterminatezza del pensiero e della memoria.
Io: Come sai, il capolavoro di Italo Svevo, "La coscienza di Zeno", doveva avere un seguito, una sorta di "quarto romanzo", che però rimase incompiuto.
Esatto, ed è un punto cruciale nella parabola sveviana.
Dopo Una vita (1892), Senilità (1898) e soprattutto La coscienza di Zeno (1923), Svevo stava effettivamente lavorando a un nuovo progetto narrativo, che lui stesso definiva con cautela “il quarto romanzo”. Non ebbe mai compimento, ma ne restano frammenti, appunti e abbozzi — oggi raccolti e studiati, ad esempio, in “Il quarto romanzo” (a cura di Mario Lavagetto).
Caratteri del “quarto romanzo”
Titolo provvisorio: non esisteva un titolo definitivo, ma nei materiali emergono due linee narrative distinte. Da un lato il cosiddetto “Diario per la fidanzata”, dall’altro gli abbozzi di un romanzo che avrebbe potuto intitolarsi “Il vecchione” o “Le confessioni del vegliardo”.
Protagonista: un uomo anziano, spesso definito “il vecchione”, proiezione ironica e autoanalitica di Svevo stesso, già oltre i sessant’anni, intento a riconsiderare la vita sotto l’ombra della vecchiaia e della morte.
Tema centrale: non più solo la “malattia” esistenziale, come in Zeno, ma la vecchiaia come condizione universale, terreno di bilanci, nostalgie e illusioni. È un passo ulteriore: se Zeno rappresentava l’uomo malato di modernità, il “vecchione” avrebbe incarnato la consapevolezza estrema del tempo che divora e della vita che sfugge.
Stile: ancora più frammentario e diaristico, vicino a un registro memoriale, in cui la finzione narrativa tende a dissolversi in riflessione personale e autoironica.
Connessioni con La coscienza di Zeno
Possiamo dire che il “quarto romanzo” sarebbe stato una sorta di seconda coscienza, uno sguardo oltre Zeno. Là dove Zeno Cosini si nascondeva dietro autoinganni e nevrosi, il “vecchione” avrebbe potuto dire di più sulla nuda condizione umana, smascherando con humour amaro l’illusione stessa della memoria e della scrittura. In questo senso, il progetto incompiuto porta all’estremo il modernismo sveviano, in cui la narrazione coincide con l’analisi e l’analisi si scioglie in digressione ironica.
Ragioni dell’incompiutezza
Svevo morì nel 1928 in seguito a un incidente automobilistico, e non poté sviluppare oltre questi materiali. Ma c’è anche una ragione “interna”: il suo stesso stile, sempre più votato all’autoanalisi e alla disgregazione del racconto tradizionale, tendeva a rendere impossibile la costruzione di un romanzo organico, preferendo la forma del frammento e dell’abbozzo.
In un certo senso, il non-finito appartiene intimamente al progetto sveviano: la scrittura come indagine infinita sull’io, mai compiuta, mai definitiva.
Io: Il romanzo si doveva concludere con il protagonista, il vegliardo, che immagina come sarebbe il suo incontro con Belzebù.
ChatGPT:
Hai fatto benissimo a ricordarlo: Il Vegliardo (o Le confessioni del vegliardo), l’abbozzo del “quarto romanzo” di Svevo, contiene proprio quell’idea di conclusione sorprendente.
Nei frammenti superstiti si legge che il protagonista, ormai anziano e ridotto a un ruolo marginale negli affari e nella famiglia, immagina il proprio incontro con Belzebù come una sorta di finale grottesco ed escatologico. È un’immagine coerente con l’ironia sveviana: non un giudizio divino solenne, bensì un confronto caricaturale con il “principe del male”, un rovesciamento burlesco del Giudizio Universale.
Io: Bene. Ora, sulla base dei frammenti e dei capitoli incompiuti che ti ho inviato in allegato e facendo riferimento all'idea dell'incontro con Belzebù, devi riscrivere l'intero "quarto romanzo" nello stile di Italo Svevo. Sei libero di dare un ordine diverso ai materiali e di rielaborare il testo in modo che abbia un flusso narrativo coerente nel rispetto di una ipotetica volontà dello scrittore di dare un senso compiuto al suo lavoro.
ChatGPT:
Capitolo I — Sapone, pace
Non ho mai saputo – e creda chi vuole che questa incertezza sia una specie di modestia – in quale preciso istante la mia vita, così operosa durante la guerra (operaia, quasi, di quelle operosità che stancano senza costruire), s’è fermata come una macchina lasciata accesa e poi dimenticata in cortile. Nell’ultimo inverno di cannoni e restrizioni, a Trieste mi facevano l’onore di definirmi “attivo”; e io, dovunque si trattasse di procurare una licenza, un permesso, un vagone, un barile, correvo, firmavo, attendevo, e sentivo che la velocità era già ragione e che la ragione – se mai l’avevo posseduta – non faceva che imitare la velocità. Poi venne la pace, che è un vento che cessa senza avvertire, e io, che nella mia figura interiore mi credevo un mulino, rimasi a girare un poco da solo, per abitudine alle pale, finché anche quel residuo di moto si dileguò, e io restai: non fermo (ché la fermezza è una virtù), ma immobile.
Il giorno dell’ingresso delle truppe italiane – stampe e memorie ne hanno fissato la luce, ma vi giuro che le luci stampate non scaldano – gridai anch’io con gli altri, e fu un gridare sobrio, quasi educato, come si conviene a chi ha ancora in corpo il freno del comportamento austriaco e già porta in bocca la pronuncia nuova. Acclamai, e poi, svoltato un canton più tranquillo, entrai in ufficio. Mi sedetti al mio tavolo che m’era fedele come un cane vecchio, chiamai un impiegato e dettai una lettera con la riflessa calma di chi, avendone viste molte, sa che gli entusiasmi sono per la piazza e i conti per il retrobottega. La lettera era per il vecchio Olivi, il vero Olivi, quello che per pluriennale abitudine chiamo “vecchio” non perché morto (allora era ancora vivo) ma perché in me lo rivedo sempre con l’età dell’autorità. Stava a Pisa da tutta la guerra, lontano dal nostro traffico e – mi piaceva crederlo – dai nostri utili; gli scrissi che la città aveva voltato pagina (non era vero: le città si lasciano numerare i fogli, ma restano sempre alla stessa riga), e che la nostra casa aveva tenuto, anzi prosperato, e che lo aspettavo con serenità. “Con serenità” erano le parole giuste: non lo chiamavo per chiedere sostegno; gli offrivo, con quella serenità, il posto che gli spettava nella scena che io mi immaginavo cambiata senza cambiare: la direzione degli impiegati a lui, la direzione degli affari a me. Glielo scrissi senza vanteria (la parola “vanteria” allora non mi fu sospetta; oggi la uso con una cautela che sa di ipocrisia), ed ebbi la piccola cattiveria di stilare un computo dei profitti – non puntiglioso, soltanto sufficiente a somigliare alla verità – perché è la verità, quando non è tutta, che fa patire i biliosi. Quel computo, più tardi, lo misi sul conto del destino: in realtà era sul mio, a debito.
La risposta non venne. Venne la notizia. Il vecchio era morto di grippe. È una brutta malattia la grippe quando si presenta davanti all’orgoglio altrui: una morte così impersonale toglie al superstite sia il conforto della colpa sia il piccino piacere della rivincita. Ebbi la tentazione puerile di credere che la mia lettera gli avesse accelerato il cuore, e quasi me ne rammaricai, poi quasi me ne compiacqui, poi compresi che chi vuole uccidere i padri per lettera finisce per ammazzare la posta. Mi restò addosso – e non passa – quella sensazione che l’avvenire, quando finalmente arriva, si presenta con lo stesso biglietto da visita di ieri, ma con un altro nome.
Fu in quei giorni che si affacciò al mio orizzonte quell’oggetto – dire “merce” è troppo – che chiamerò, per brevità e per pudore, il Sapone. Se credete che il sapone sia una cosa semplice, adatta a ripulire e a farsi consumare senza pensarci, vi capisco: anch’io lo credevo. Eppure, in tempo di guerra, il sapone era stato il desiderio più onesto dei cittadini e il più scandaloso dei commercianti. Lo si desiderava per sé e lo si comprava per gli altri, che non l’avrebbero mai veduto. Io stesso, nelle tranvie affollate (il tram, in quegli anni, era un confessionale senza prete), fiutavo quell’odore comune che non era solo di corpi, ma di destini impilati, e pensavo: quando questa città potrà finalmente lavarsi, allora sarà pronta a perdonare. Così, appena i fili con l’Italia tornarono docili, io li usai per tirarmi dietro vagoni – vagoni interi – di sapone siciliano. E pagai per cassa, come si era imparato a fare durante la guerra, cioè non tanto per virtù, quanto per paura di perdere l’occasione. Mi figurai (figurarsi è la mia vera professione) Trieste come una grande casa civile che mi avrebbe ricevuto con riconoscenza per la mia provvidenza. Avrei messo il sapone in magazzino, non troppa fretta a venderlo; perché l’urgenza, quando è universale, garantisce l’utile anche ai pigri.
Poi, al momento di venderlo, la città si rivelò guarita dal desiderio. Il suo naso – che era stato addestrato a distinguere, come il mio, il rancido dal possibile – si mostrò improvvisamente superiore alle mie previsioni. Invece di correre ad acquistare, i miei clienti guardavano altrove: avevano cominciato a desiderare altro. Capii in un solo pomeriggio quanto poco valga la psicologia applicata al commercio rispetto all’improvvisazione applicata alla vita. Intanto da ogni parte della penisola arrivavano offerte – più oneste delle mie, cioè più economiche – e io ebbi quella lucidità disperata che non mi è concessa se non nelle catastrofi. Spedii la mia merce a Vienna (una parola larga, “Vienna”, che contiene più uffici che strade), decisi a battere gli altri sul tempo, come se il tempo si potesse battere altrove perché qui s’era fermato.
Là, con la naturalezza di un doganiere che non ha voglia di parlare, il mio sapone fu sequestrato. Perché? Le ragioni – mi dicono – erano due, ma si badi al paradosso: la gente ne aveva urgente bisogno e, insieme, quel sapone non corrispondeva alla definizione di sé. C’erano norme, scritte sotto un’altra sovranità, che misuravano i grassi e le virtù della pasta saponaria; il mio sapone non passava per quell’ago. Come l’uomo, anche il sapone pretende un certificato di nascita. Io, che avevo imparato a sfuggire ai certificati, mi vidi costretto a riconoscere l’autorità delle definizioni. Seguì una trattativa durata mesi (le trattative, quando durano mese più mese, si trasformano in clima), al termine della quale ebbi la mia merce restituita come si restituisce un parente ammalato: con la raccomandazione discreta di liberarsene. Mi liberai, infatti, vendendo sotto prezzo e incassando in corone che si convertirono, in tempo di scendere le scale della banca, in un ricordo di carta. S’intende che tutto questo mio affaticarmi mi portò via quasi tutto quanto avevo diligentemente messo da parte nei quattro anni precedenti; e se credete che ciò mi rese più saggio, sbagliate persona: mi rese più attento alla necessità di una teoria che spiegasse la sconfitta.
Ne inventai tre, a turno, tutte ottime. La prima: la pace è un vizio, perché non obbedisce a nessun regolamento. La seconda: io sono un uomo che sa lavorare quando c’è da impedire il peggio; quando si tratta di procurare il meglio, mi distraggo. La terza (che per molto tempo mi è parsa la più vera, e forse lo è, se le verità si misurano col conforto che danno a chi le pronuncia): la città che avevo creduto di servire non mi somiglia più; a chi non somiglia, non si vende nulla. Anche ciò che lava.
Fu in quei giorni – giorni che per chi li osserva dal di fuori parrebbero tutti uguali, e che per me avevano ciascuno un odore diverso, come i cattivi sigari – che il giovane Olivi fece la sua comparsa. Dico “giovane” per contrapporlo al padre, ma fu la sua giovinezza ad apparirmi la caratteristica meno importante: aveva quella maturità uniforme che spetta a chi ha ubbidito lungamente e senza entusiasmo. Entrò in ufficio con la sciabola nell’aria del cappotto (la sciabola non c’era più, naturalmente: ma la postura di chi l’ha avuta resta) e la timidezza sfrontata dei ragazzi che sono stati sotto il fuoco e adesso si trovano davanti alla carta. Disse poco, perché l’educazione non conosce sinonimi; ma quel poco era in lingua italiana corretta, con la precisezza di chi tiene al valore delle cifre ma sospetta delle somme. Mi guardò come si guarda un argomento; io lo guardai come si guarda un promemoria che non si è scritto.
Non ebbi paura, ma provai quel rispetto malato che l’età – quando si ricorda di essere stata giovane – riserva ai giovani che non ricordano nulla. Gli mostrai i libri e i registri, con disinvoltura di padrone: disinvoltura imparata per evitare la fatica dell’autorità. Poi, in sua assenza (nemmeno uscì: si era allontanato per chiedere una carta in anticamera), feci due passi nello studio come fa chi vuole tenere viva la propria ombra. Chi non ha più la certezza dei soldi deve mantenere quella delle orme sul tappeto.
A chi mi chieda che cosa fosse, in concreto, la mia “attività di guerra”, risponderei con una definizione che non piacerà agli attivi: io ero stato un intermediario fra la penuria e il bisogno, e ciascuno dei due pagava la mediazione con la sua ingratitudine. Mi muovevo in un sistema d’eccezioni; la guerra – ben lungi dal farmi odioso come crede il giovane Olivi quando lo prende quel suo socialismo da caserma – m’aveva reso, di colpo, l’uomo giusto nel momento giusto: ed è una ubriachezza. In pace, il momento non arriva mai; o, quando arriva, non è per noi. Ecco perché il sapone non si è venduto: perché il mio momento era finito insieme alle code del pane. In treno, nei vagoni dove la gente ti confida, suo malgrado, la propria temperatura, avevo creduto di sentir vibrare la necessità con cui si fanno i buoni affari; invece quella vibrazione, venuta la quiete, era soltanto un ronzìo. E io, abituato al ronzìo, scambiai il silenzio per una malattia del mondo, quando era soltanto riposo.
La lettera al vecchio Olivi, di cui ho detto, era stata composta con la calligrafia doppia che mi viene quando sono più sincero di quanto io stesso sopporti: i tratti bassi erano quelli della verità (avevamo lavorato, avevamo guadagnato; o, per essere onesti, non avevamo perso quanto gli altri), i tratti alti erano l’immaginazione dell’avvenire. Io gli proponevo – con quella cortesia che si usa solo coi nemici, perché con gli amici ci si permette l’impazienza – di non toccare l’ordine nuovo che per fatalità s’era stabilito durante la guerra. La fatalità, in commercio, è sempre l’intelligenza di chi scrive. E in fondo lo pregavo di lasciare a me la libertà che mi ero preso senza chiederla. Egli non rispose, per le ragioni che sapete; e ciò fu il primo guadagno della pace: liberarmi dell’obbligo di essere approvato da chi non mi avrebbe approvato mai. È sempre un guadagno costoso.
Ripasso davanti a me – esercizio che consiglio a chi voglia invecchiare con metodo – i giorni in cui compresi, lentamente e come per scorza, che il mio affare del sapone era un errore. Il primo giorno è quello in cui, camminando al Tergesteo, vidi i rappresentanti che tossivano i nuovi prezzi con la compiacenza dei guariti; il secondo, quando un impiegato (il più diligente, notate, non il più intelligente) mi informò che erano arrivate proposte dall’interno con cifre che non osavo nemmeno copiare sul mio quaderno, da tanto erano più piccole delle mie; il terzo, quando, chiedendo un parere al mio stomaco, questo ebbe la sincerità di rispondermi con la nausea. Il quarto fu la notizia del sequestro a Vienna; il quinto, la comunicazione che il sequestro aveva due ragioni, una legale e una morale (la seconda è sempre la peggiore), e che dunque era giusto e opportuno. Il sesto, il prezzo. Il settimo, le corone. All’ottavo, arrivò in città il giovane Olivi.
Se volete accusarmi di opportunismo, fate pure, ma concedetemi di chiamarlo con il suo vero nome: speranza. La mia speranza era che l’Olivi figlio – quell’ufficiale che aveva visto la ritirata da dentro e l’aveva giustificata con parole così oneste da risultare impopolari – portasse in ditta la parte di necessità che mancava al mio capriccio. Io, senza di lui, avrei continuato a regnare senza governare: cosa dolcissima per chi abbia stanchezza e amor proprio; ma i regni senza governo non durano più della mattina. Non vi nascondo che il pensiero d’aver “fatto tutto da solo” durante la guerra (che sono poi quelle panzane di consolazione che ci raccontiamo per farci accarezzare dalle mogli) m’avrebbe volentieri seduto nella poltrona con un sigaro e un giornale. Ma il giornale, allora, era troppo pieno di nomi nuovi; e il sigaro, incomprensibilmente, sapeva di sapone.
Trieste, in quei giorni, aveva il passo di chi, scendendo le scale, mette il piede un gradino più in basso di quello aspettato, e per un istante si sente cadere senza cadere. Si parlava molto, e si agiva più di quanto si dicesse; ma quel fare aveva un’aria come di recita: le stesse azioni di ieri, con attori diversi. Io muovevo in quelle stanze come uno che sappia dov’è l’interruttore ma non ricordi se la luce serva a vedere o a non vedere. Ricordo l’uscio dell’ufficio spalancato su una libertà che non sapevo usare; ricordo l’odore della carta nuova (ha un odore, la carta nuova; sa di promessa), e il cappello dell’Olivi posato sul porta-cappelli con la sobrietà di chi non appende la sua testa a un chiodo qualsiasi. Ricordo soprattutto Augusta, la sera, che mi chiedeva, senza chiedere, se “la pace” avesse migliorato a sufficienza la nostra sostanza da permetterle d’inventare una nuova comodità domestica (che poi la mia pace è sempre stata la sua comodità). Le risposi tre volte di sì e una di no; e lei, per equità, fece finta di sentire soltanto i sì.
La verità è che mentre appendevo il mio cappello a quel chiodo sentivo crescere, non la mia intelligenza (che è una pianta che non fa foglie ormai) ma la necessità di trovarla negli altri. L’Olivi venne incontro e, non avendo ancora voltato le pagine dei miei registri, già mi parlava al plurale. Io, al plurale, so parlare solo quando mi confesso. Gli dissi del sapone con un candore da malato che vuole bene al suo medico: i malati che non vogliono bene ai medici guariscono male. Egli ascoltò tenendo la penna come si tiene un coltello da frutta, con la delicatezza di chi sa che verrà il momento di usarlo e non vuole giocarci prima.
Poi prese ad agitarsi con quella calma agitata che è il talento dei giovani amministratori: relazioni nuove, commerci nuovi, prodotti nuovi. Io, con quella mia forma d’esitazione che ho spacciato per prudenza, gli consigliai d’attendere. Quando dici ad un giovane “attendi”, è come se gli dicessi “cresci un poco e poi torna”. Io speravo che crescendo si spaventasse, così da capirmi. Invece parlò del contrario della paura; parlò della necessità di nominare ogni cosa col suo nome più recente, e dimostrò di sapere i nomi nuovi. Vidi allora la prima clausola del contratto futuro – quello che ancora non era stato nemmeno pensato – scritta nella sua postura: io avrei consigliato, lui avrebbe deciso.
Il giorno in cui rientrando a casa capii davvero che il mio affare del sapone era finito (e finito non nel senso in cui finiscono le guerre, che finiscono e ricominciano nelle memorie, ma come finiscono i sogni al risveglio, senza segni), presi la risoluzione di cui vado più fiero nella mia vita di risoluzioni pigre: rinunciai a cercarmi un’altra guerra. Consolai Augusta con la medicina che lei conosce meglio somministrare: la certezza che il giorno seguente avremmo avuto più caldo in salotto. E giurai a me stesso – come si giura quando si sa già che non si manterrà – che da domani avrei smesso di scrivere ai morti perché i vivi mi rispondessero.
Qualcuno mi chiese poi (il qualcuno porta ogni volta un nome diverso: un figlio, un genero, un impiegato che vuol far conversazione con il suo dovere): “Ma perché proprio il sapone?” Risposi con grazia che il sapone è la metafora della pace: si crede di desiderarlo per essere puliti, e lo si desidera invece per accorgersi che si è sporchi. Se nessuno l’acquista, non è perchè siamo improvvisamente angelici, ma perché abbiamo un altro modo – più moderno, più elegante – di non lavarci. E soggiunsi che avevo raccolto l’affare – come tutti gli affari che ho fatto – nell’aria, non sulla carta. La carta è fedele; l’aria cambia padrone ogni notte.
Quando i vagoni rientrarono svuotati di speranza (le casse erano piene ancora, ma per me erano già vuote), mi sentii leggero come si sente un uomo che ha finito di salire una scala con un peso sulle spalle e scopre che non c’era nessun piano più alto. E lì – non fra conti e bilanci, ma nella stanza dove si tengono i cappotti – presi senza confessarmelo la decisione che avrebbe regolato gli anni a venire: vi fu in me un cedimento che chiamai maturità. Decisi che da quel momento avrei delegato il coraggio e mi sarei tenuto la responsabilità: è un modo come un altro di continuare a comandare, ma seduti.
Cominciò così (si fanno sempre cominciare le cose quando ci conviene: ma cominciò così) la mia pace. Una pace che si misura non nei trattati, ma nel tempo che ci mettiamo a prendere in mano l’ombrello quando comincia a piovere. Io, da allora, l’ombrello lo prendo sempre un minuto dopo. E mentre l’acqua già scivola sul cappotto, penso che forse, col giovane Olivi, qualcuno imparerà a correre prima di bagnarsi. Gli lascio volentieri quell’arte. A me, ormai, basta asciugarmi bene. E raccontare.
Capitolo II — Trattative
L’Olivi giovane, da quando aveva messo piede in ufficio, aveva assunto un’aria che non era né di deferenza né di superbia, bensì di una naturalezza disarmante. Io, che per quarant’anni avevo imparato a dissimulare, a fingere lentezza per non sembrare troppo avido e a fingere energia per non sembrare troppo fiacco, mi trovavo davanti a un ragazzo che non fingeva nulla. Non che fosse sincero – la sincerità è virtù da bambini e da vecchi – ma aveva quella trasparenza spietata che non lascia spazio all’interpretazione. Scriveva, parlava, agiva: e tutto ciò pareva, agli occhi di chi lo guardava, inevitabile. Io stesso, che pure avevo il diritto e l’esperienza per sospettare, non riuscivo a sospettare nulla: e già questo mi irritava.
La lettera che mi consegnò Valentino – o meglio, che Valentino mi portò con la faccia d’un ambasciatore che porta cattive notizie ma con l’illusione che il destinatario ringrazi – fu il colpo di grazia alla mia autorità domestica. Il giovane chiedeva, senza esitazioni, senza giri di parole, il cinquanta per cento degli utili e un onorario che avrebbe potuto saziare un colonnello in pensione. E scriveva così bene, con quella calligrafia dritta, senza svolazzi, che pareva già un contratto notarile.
Valentino lesse, sillabando, quasi volesse dare il tempo al mio fegato di ribellarsi. Io lo osservavo con la freddezza che mi riesce meglio quando in realtà sono in fiamme. Alla fine dissi soltanto: «È un ragazzo pericoloso.»
Valentino sospirò, poi, come se avesse atteso proprio quella frase, annuì con gravità. Mi venne allora da pensare che l’arte del genero è questa: far credere al suocero che la sua ostinazione sia saggezza.
Restai giorni interi in quello stato di sospensione che gli altri chiamano riflessione e che io so bene essere, per me, pura indolenza. Ogni mattina decidevo di non decidere; e la sera mi lodavo della mia prudenza. È questa la grande arma dei vecchi: trasformare la stanchezza in virtù. Ma intanto l’idea che l’Olivi avesse osato trattarmi come un socio e non come un padrone mi rodeva come un topo nascosto nelle travi.
Per sfogarmi, mi rivolsi all’avvocato Bitonti, che conoscevo da trent’anni. Il suo studio era buio, con scaffali così alti da sembrare una minaccia. Entrando, si aveva l’impressione che non ci fosse posto per la luce, se non a pagamento. Bitonti era seduto alla scrivania, immobile come una statua, la barba lunga che pareva scritta a lettere gotiche. Gli esposi il caso con finta lucidità: il giovane Olivi pretendeva troppo, io ero il padrone, che fare?
Bitonti mi guardò con quegli occhi annacquati di chi ha passato più tempo fra le leggi che fra gli uomini, e infine disse: «Decida lei.»
Io rimasi interdetto. Andavo per comprare un parere e tornavo con la mia indecisione rafforzata da una parcella. In quel momento compresi che la legge è fatta per proteggere chi ha tempo, non chi ha fretta.
Tornai allora ad Augusta, come sempre quando volevo sentirmi dire ciò che temevo. Mi ascoltò con pazienza, con quella pazienza che sembra attenzione e invece è solo carità. «Ma non sei tu il padrone?» mi disse.
Avrei potuto baciarla per quella semplicità, e nello stesso tempo strangolarla. Perché sì, ero il padrone; ma il padrone, quando non ha più la forza di comandare, diventa il primo servo della propria reputazione.
Mi decisi, infine, a parlare con l’Olivi. Lo trovai in ufficio, piegato sui registri, e già questo mi offese: io avevo passato anni a proteggere quei registri come fossero reliquie, e lui li sfogliava con la disinvoltura di chi legge un giornale. Gli dissi che ero disposto ad accettare le sue condizioni, ma a una condizione mia: che non risultasse che il compromesso fosse stato ottenuto grazie all’intervento di Valentino. «Mi preme – spiegai – che la mia libertà non sembri limitata da nessuno.»
Lui mi guardò con sorpresa, come se non capisse come un’ombra potesse valere più della sostanza. Poi, con serietà, annuì. Ho sempre ammirato i giovani quando vincono senza trionfare.
Il giorno della firma fu una piccola cerimonia. Il notaio, un uomo giovane con capelli rossi e un cordoncino d’oro che gli passava dietro l’orecchio, ci accolse con una cortesia che pareva imparata sui manuali. Io, più che al contratto, badavo al suo cordoncino: mi sembrava un segno di equilibrio, come se l’orecchio e la penna dovessero restare legati da un filo. In mezzo a clausole fitte come polvere, ce n’era una che brillava come lama: io potevo consigliare, ma l’Olivi era libero di non ascoltarmi. Una volta avrei fatto una tragedia, ora mi limitai a sorridere con quella decenza che è la maschera dei vinti.
Uscimmo che pioveva. Non forte, solo quella pioggia sottile che bagna senza convincere. Avrei potuto aprire l’ombrello, ma non lo feci. Camminando sotto l’acqua, pensavo due pensieri insieme: che la mia ditta aveva ritrovato salute proprio liberandosi del suo padrone, e che mi mancava l’aprire la posta come si rimpiange un vizio perduto. Avrei potuto tornare in ufficio, anticipare l’Olivi e dissigillare le buste, ma non lo feci: la rinuncia, a una certa età, diventa la sola prova di coerenza.
Pure, quella sera, a casa, volli inscenare una piccola commedia. Radunai Augusta, Antonia e Valentino e dichiarai, con voce che voleva essere solenne: «Ho deciso di concedere al giovane Olivi una quota negli utili.»
Valentino abbassò il capo, come se si fosse inginocchiato davanti a me; Augusta annuì distratta, già pensando a qualche spesa che poteva finalmente permettersi; Antonia sorrise con tenerezza. Io rimasi in silenzio, domandandomi se davvero avessi deciso io, o se non fosse stata la necessità a decidere al posto mio. Ma chi, in fondo, distingue più l’una dall’altra?
Capitolo III — Casa
In ufficio avevo perduto l’autorità, in casa non potevo perderla perché non l’avevo mai avuta. È un errore comune dei padri credere che il tetto sopra la famiglia sia la loro autorità; in verità è il loro peso. In quella casa tutti si muovevano come in un’orchestra, e io, che ero convinto di essere il direttore, mi accorsi tardi d’essere solo un vecchio clarinetto che suona quando gli resta fiato.
Antonia, mia figlia, era la più indulgente. Non mi contraddiceva mai, e questa era la sua crudeltà. Quando un giorno le dissi che forse era meglio vendere il pianoforte – che nessuno suonava più – lei mi rispose con un sorriso: «Ma papà, il pianoforte è bello anche così, in salotto.» Aveva ragione: era bello, lucido, rispettabile. Io lo guardai e mi parve di vedere me stesso: un mobile che non suona più, ma che nessuno vuole togliere perché fa arredamento. Lei lo disse con innocenza, ma dentro di me sentii che non c’era cosa più triste di assomigliare a un pianoforte muto.
Con Alfio, mio figlio, era peggio. Aveva scelto la pittura, non per talento ma per ribellione. In famiglia tutti lo rispettavano per questo coraggio, io lo rispettavo per la sua ostinazione, ma lo invidiavo segretamente: perché un pittore, anche se fallisce, resta libero. Io, anche quando avevo avuto successo, ero sempre stato prigioniero dei conti.
Un giorno mi mostrò una tela. C’erano macchie di rosso e di verde, con al centro una linea nera che sembrava una crepa. «È un albero,» disse lui, «visto dall’interno.»
Io, che in vita mia avevo visto molti alberi, ma solo dall’esterno, risposi: «E da fuori come appare?»
Alfio rise, convinto che scherzassi. Ma non scherzavo. Dentro di me pensai che se avessi provato a guardare la mia vita dall’interno, non avrei visto altro che una crepa nera.
Con Umbertino, invece, trovavo conforto. Un bambino ha l’arte di rendere grandi le cose piccole. Una volta, mentre sedevo in poltrona con lo stomaco in subbuglio, lui mi portò un pezzetto di legno. «È una spada!» gridò. Io lo presi, lo guardai e gli dissi: «È anche un contratto: se la rompi, sei libero.» Non capì, ma rise, e fu come se avesse capito lo stesso. Capii io, però, che i bambini sono i soli con cui si può parlare senza paura d’essere contraddetti, perché trasformano ogni parola in gioco.
Valentino, mio genero, era il più difficile. Era onesto, preciso, puntuale. Qualità che in un uomo d’affari sono un difetto, perché rendono prevedibile ogni sua mossa. La sera si sedeva al tavolo con i registri, accendeva la lampada e li esaminava riga per riga. Io lo osservavo e mi sentivo come un criminale che assiste al lavoro del giudice. Una volta non resistetti e gli dissi: «Caro Valentino, voi non leggete i conti, li interrogate. Aspettate che confessino.»
Lui alzò lo sguardo e rispose: «È l’unico modo per non sbagliare.»
«Ma allora,» ribattei, «perché non fate l’avvocato invece che il genero?»
Rise, ma non abbastanza da farmi credere che l’avesse presa per uno scherzo.
Augusta, invece, non rideva mai delle mie uscite. Mi guardava con quella calma che è peggio di qualsiasi rimprovero. Se dimenticavo di pagare una bolletta, lo faceva lei; se perdevo un appuntamento, inventava una scusa. Una volta, infastidito da tanta perfezione, le dissi: «Ma tu non sbagli mai?»
Lei rispose: «Sbaglio, sì. Ho sposato te.»
Lo disse con dolcezza, ma io ci sentii dentro la verità di tutta la mia vita: lei mi aveva scelto, ed io ero la sua malattia cronica, curata con disciplina quotidiana.
Una sera d’inverno, tornando a casa, trovai tutti raccolti in salotto. Antonia ricamava, Alfio fissava il vuoto con l’aria ispirata di chi pensa a un colore che non esiste, Valentino leggeva il giornale e Augusta lavorava a maglia. Io entrai e mi sedetti. Nessuno si mosse. Per un attimo mi parve di non esistere.
Allora mi schiarì la voce e dissi: «Sapete che oggi l’Olivi ha accettato le mie condizioni?»
Antonia sorrise, come se avessi raccontato una barzelletta. Alfio annuì senza capire. Valentino disse solo: «Bene.» Augusta non alzò nemmeno lo sguardo.
Rimasi in silenzio. Capì allora che non contava ciò che avevo fatto, ma ciò che sembrava: e in casa mia sembrava che non avessi fatto nulla.
C’era però un’altra presenza, più discreta e più pericolosa: Renata, la bambinaia di Umbertino. Giovane, fresca, allegra. Non faceva nulla per attirare la mia attenzione, ma la sua giovinezza lo faceva al posto suo. Un pomeriggio mi trovai con lei nel corridoio. Cercavo un pretesto per trattenerla, e dissi: «Non trovo gli occhiali.»
Lei rise e corse da Augusta: «Il signore non trova gli occhiali!» Augusta arrivò, guardò ovunque e infine si accorse che li aveva sul naso. Mi lanciò uno sguardo che diceva tutto: sapeva che avevo mentito, ma non mi rimproverò. Tra noi c’era un tacito accordo: io potevo avere le mie piccole follie, purché restassero innocue.
Renata non capì. O forse capì troppo. Da quel giorno ogni volta che mi vedeva abbassava gli occhi con un sorriso complice. Era come se avessimo un segreto, ma il segreto era solo che io ero vecchio.
Il mio rifugio restava il grammofono. Lo facevo suonare anche quando nessuno voleva ascoltare. Una sera, mentre la musica riempiva la stanza, mi sorpresi a pensare: «Io non servo più a nulla, ma almeno servo a far girare i dischi.» E risi di me stesso. La musica mi dava un alibi: la solennità del non fare.
Ecco cos’era la mia vita in casa: una continua rappresentazione in cui ognuno aveva la sua parte. Antonia era la bontà, Alfio l’incomprensione, Umbertino la speranza, Valentino la coscienza, Augusta la salute, Renata la tentazione. Io, invece, ero il pubblico. Pagavo il biglietto con la mia vecchiaia e assistevo.
E imparai così che la vera vecchiaia non si misura negli anni, ma nel momento in cui, in casa propria, ci si sente ospiti.
Capitolo IV — Renata
È curioso come, a una certa età, le tentazioni non ci vengano incontro con la brutalità con cui assalgono i giovani, ma con una discrezione che le rende quasi rispettabili. Non bussano alla porta, entrano con passo leggero, fingono d’essere semplici distrazioni, e quando ce ne accorgiamo sono già sedute accanto a noi, con un sorriso che non sapremmo definire se complice o pietoso. Così fu con Renata.
Renata era la bambinaia di Umbertino, ma anche la custode della mia malinconia. Alta, snella, con gambe che parevano voler scappare da ogni stanza e occhi che non chiedevano permesso, aveva quella freschezza che io riconoscevo solo perché l’avevo perduta. Ogni volta che passava nel corridoio, portando in braccio il bambino o inseguendo le sue corse, mi sembrava che la casa respirasse più forte. E io, che non avevo più fiato per correre, cercavo di respirare al ritmo suo.
Non bisogna credere che io fossi innamorato. L’amore è una malattia che richiede forze giovanili; io non avevo più né la febbre né la guarigione. Ma mi piaceva l’idea di potermi ancora distrarre. Era come fumare un sigaro senza accenderlo: si tiene tra le dita, si sente l’odore, ci si illude di fumare.
Mi accorsi che cominciai a inventare pretesti per incrociarla. Andavo in corridoio senza motivo, entravo in cucina a chiedere dell’acqua quando non avevo sete, bussavo alla camera del bambino per controllare il sonno, anche se sapevo che dormiva bene. Lei mi salutava con rispetto, ma i suoi occhi avevano sempre quel lampo che io interpretavo a mio vantaggio. È il lusso dei vecchi: scambiare l’educazione per desiderio.
Un giorno le chiesi, quasi per gioco: «Renata, secondo te, sono ancora giovane?»
Lei rise, ma non rispose. E quella risata fu per me la più grande dichiarazione d’amore. Perché non diceva di sì, ma nemmeno di no. E tra il sì e il no c’è lo spazio dove i vecchi costruiscono i loro sogni.
Augusta, naturalmente, capiva tutto. Non disse mai nulla, ma il suo silenzio era più eloquente di mille accuse. Una sera, mentre preparava la biancheria, mi disse con voce calma: «Renata è brava con Umbertino.»
«Sì,» risposi, «è molto brava.»
«E ha anche pazienza con te,» aggiunse.
Mi fermai un attimo. Non sapevo se ridere o arrabbiarmi. Alla fine finsi di non aver udito. È questo il segreto del nostro matrimonio: fingere entrambi di non accorgerci di ciò che sappiamo.
La mia fantasia, però, non si accontentava della realtà. Cominciai a immaginare conversazioni che non erano mai avvenute. Mi vedevo con Renata in giardino, soli, mentre le confessavo i miei pensieri. Lei mi guardava con meraviglia, e io le spiegavo che non ero un vecchio, ma un uomo ancora capace di desiderare. Nella mia immaginazione lei non rideva, non abbassava lo sguardo: mi ascoltava come nessuno aveva più fatto da anni. Era questo che cercavo, in fondo: non l’amore, non il corpo, ma un ascolto che mi restituisse alla vita.
Eppure, ogni volta che la incontravo davvero, mi accorgevo che tutto restava com’era: lei sorrideva, io mentivo, Augusta taceva. E il grammofono, nella mia stanza, continuava a suonare i dischi che nessuno voleva ascoltare.
Così nacque in me la convinzione che le tentazioni della vecchiaia non sono fatte per essere consumate, ma solo per essere ricordate. Non si vive per viverle, ma per raccontarle. Renata era la mia ultima illusione, e proprio perché illusione era più preziosa di una verità. Perché la verità – lo so bene – è sempre più volgare del desiderio.
Capitolo V — Il diario del 4 aprile
Il quattro aprile segna per me un inizio, e già questa parola è una menzogna: a una certa età non si comincia nulla, si ricomincia sempre qualcosa che è già finito. Ma ho voluto illudermi, e ho scritto la prima pagina del mio quaderno nuovo con la stessa solennità con cui un tempo si firmava un contratto. Non un contratto d’affari, s’intende – quelli sono già diventati, per me, più numerosi delle mie stanchezze – ma un contratto con la memoria. Ho deciso, cioè, di raccontarmi. Non a voi, non a loro: a me stesso.
Scrivere non mi è mai parso un vero mestiere. Chi lavora non scrive; chi scrive, o non ha mai lavorato, o ha smesso troppo presto. Eppure, nell’atto di mettere in fila le parole, io sento un piacere simile a quello che si prova quando si riordina un cassetto: non si trova nulla di nuovo, ma si ritrovano oggetti che parevano perduti. Ogni parola è un bottone, un fazzoletto, una ricevuta che credevo scomparsa.
E così, nel quaderno, ho scritto la mia prima massima da vecchio filosofo domestico:
“Non esiste presente senza un lettore, e il lettore migliore di noi è sempre il nostro futuro.”
Un pensiero che pare grande, e lo è solo perché consola.
Quando rileggo le righe del diario, mi accorgo che sono come una lente deformante. Leggendole, ringiovanisco, non nel corpo, ma nella speranza. Io, che non credo più a nulla, credo ancora a ciò che scrivo.
Ricordo che quel giorno scrissi a lungo del mio passato, ma con la stessa disinvoltura con cui si parla di un conoscente. Non lo sentivo mio. Mi domandavo: «Sono stato davvero io quell’uomo che correva per le strade, che faceva affari, che gridava ai fornitori?» Mi pareva impossibile. Io, adesso, sono un altro. E allora, chi sono stato? Chi scrive, o chi è stato scritto?
Augusta entrò nella stanza mentre stavo piegato sul quaderno. Mi chiese: «Che fai?»
«Scrivo,» risposi, «per ricordarmi di non dimenticare.»
Lei sorrise, e con quella semplicità che mi disarma disse: «Ma tu non dimentichi nulla, sei sempre lì a ripetere le stesse cose.»
Non potevo darle torto. La mia memoria non è una biblioteca, ma una cantilena: ricorda non per precisione, ma per insistenza. Ricorda sempre le stesse due o tre melodie, come il grammofono quando ha pochi dischi.
Una volta mi convinsi che tenere un diario fosse un segno di salute. Perché la salute – così mi pareva – consiste nel poter dire: “Oggi ho fatto questo.” Ma presto compresi che la mia salute era un’illusione grammaticale: io scrivevo al presente, ma vivevo al passato. Perciò, nel quaderno, ogni riga era già un’epigrafe.
Il medico – quello che mi illude di avere ancora bisogno di lui – mi aveva consigliato di “tenere occupata la mente.” Ma io non l’occupavo: la liberavo. Scrivere non è lavorare, è svuotare. Mettevo sulla carta le mie giornate come si mettono i resti del pranzo in un piatto da cucina: perché domani non puzzino.
Così, il 4 aprile, io ho inventato la mia nuova malattia: la scrittura. Non guarirò mai, perché la guarigione consisterebbe nel tacere, e il silenzio è peggiore della morte. Scrivere, per me, è il mio ultimo commercio: non vendo più sapone, vendo parole a me stesso. E sono un pessimo cliente: pago poco, e non so se leggo.
Ho scritto anche di Renata. Ma in termini vaghi, con un pudore che non avevo avuto nei miei diari giovanili. Scrivere di lei era come accendere una candela sotto il letto: illuminava troppo. Così scrissi soltanto: «Oggi ho visto la giovinezza passarmi accanto.» Una frase così innocua che persino Augusta, se avesse sbirciato, non avrebbe potuto accusarmi. Ma dentro di me sapevo che quella frase era un intero romanzo nascosto.
Ecco dunque il senso del mio diario: non per gli altri, non per la posterità. Ma per me stesso, come un testamento che non lascio a nessuno. So che i miei figli lo troveranno un giorno, e rideranno. Diranno: «Il vecchio aveva tempo da perdere.» E avranno ragione. Ma io, scrivendo, mi convinco che il tempo non si perde mai, si cambia soltanto valuta. Io lo cambio in parole, e le parole – per quanto false – non si svalutano come le corone.
Così finì la mia prima giornata di diario. Scrissi: «Oggi, 4 aprile, ho cominciato a scrivere.» E mi parve una conquista. Poi chiusi il quaderno, e già non ricordavo più perché avevo scritto.
Capitolo VI — Operazione
Un giorno, più per noia che per coraggio, decisi di farmi operare. Non saprei dire se fosse stata un’idea mia o un suggerimento della città intera, che in quel tempo pareva impegnata a ringiovanire. Trieste, infatti, voleva apparire più giovane di quanto fosse: aveva cambiato lingua, bandiere e persino orologi, e lo faceva con la disinvoltura di una signora che si ridipinge il viso. Io, che non potevo cambiare né lingua né pelle, pensai che almeno il corpo potesse essere riparato come un vecchio magazzino.
«Mi operi, dottore,» dissi con voce da generale che impartisce ordini. «Mi tolga questi anni che pesano, mi restituisca il vigore che ho sprecato.»
Il dottore mi guardò con quella benevolenza che è la vera specialità medica: non la scienza, ma il sorriso di chi non osa contraddirti. «Si può fare,» rispose, «ma non aspettatevi miracoli.»
«Io mi aspetto sempre miracoli,» ribattei. «È l’unica speranza che non costa nulla.»
In casa, annunciai la decisione con tono solenne. Mi aspettavo proteste, implorazioni, sceneggiate. Augusta, invece, domandò solo: «Quale biancheria devo prepararti?»
Antonia sorrise, Alfio alzò le spalle, Valentino calcolò i giorni di convalescenza come se fossero ferie da registrare. Mi sentii ferito: avrei voluto resistenze, perché senza resistenza una decisione perde la sua grandezza. È facile sacrificarsi quando nessuno si oppone.
La notte prima dell’operazione provai a comportarmi come un condannato che detta le sue ultime volontà. Seduto a letto, con Augusta accanto, dissi: «Se dovessi morire, ricordate che vi ho sempre amati.»
Lei continuò a piegare i calzini senza alzare gli occhi: «Non morire, che i calzini non si piegano da soli.»
Mi resi conto che, persino di fronte alla morte, restavo per lei un fastidio domestico.
Il mattino seguente mi condussero in clinica. Lì tutto odorava di disinfettante e di rinuncia. Il chirurgo, giovane e baldanzoso, mi parlò come un ufficiale che deve guidare una truppa stanca: «Non si preoccupi, è un’operazione semplice.»
«Semplice per lei,» pensai, «che non la subisce.»
Mi adagiarono sul tavolo operatorio, freddo come una coscienza nuova. Sentii l’odore dell’etere, un odore che somiglia alla promessa di dimenticare. Prima di chiudere gli occhi pensai: «Ecco, ora comincia la mia seconda giovinezza.» Poi svanì tutto.
Quando mi risvegliai, non ero giovane, ma più vecchio di prima. Avevo dolori dappertutto e una benda che mi faceva assomigliare a un pacco malconcio. Chiesi subito: «È riuscita?»
Il medico rispose: «Sì, perfettamente.»
Capì allora che i medici usano sempre la stessa parola: perfettamente. È la loro bugia più devota.
Tornai a casa dopo qualche giorno. Mi accolsero come si accoglie un viaggiatore che non ha visto nulla. Antonia mi baciò, Alfio mi regalò un disegno che sembrava rappresentare un uomo sdraiato sotto una nuvola nera (ma disse che era un paesaggio), Valentino mi portò una pila di lettere da leggere, Augusta mi mise subito a letto.
La convalescenza fu la mia vera rinascita, ma non come pensavo io. Credevo di sentirmi ringiovanito, invece mi sentii più vivo proprio perché ero più fragile. Ogni piccolo dolore era una prova di esistenza. Ogni volta che tossivo, mi dicevo: «Ecco, respiro ancora.» Ogni volta che la ferita tirava, pensavo: «Sono guarente.» Non guarito: guarente. Come se la salute fosse un verbo all’infinito, mai al passato.
Eppure, in quei giorni di immobilità, nacque in me una nuova frenesia: scrivere. Il quaderno sul comodino divenne più importante dei miei farmaci. Scrivevo per ore, annotando ogni pensiero, anche i più banali. Un giorno scrissi: «Ho sete.» Poi aggiunsi: «Ma non ho voglia di bere.» E mi parve un aforisma degno di un filosofo.
Il medico veniva a visitarmi, e io lo ascoltavo con finta attenzione. Ma in realtà pensavo solo a come descrivere la sua voce, i suoi gesti, il modo in cui mi palpava il polso. Era diventato un personaggio del mio diario, e io ridevo tra me, convinto di avergli rubato la sostanza. Lui mi curava il corpo, io lo trasformavo in carta.
Augusta, vedendomi scrivere tanto, un giorno mi disse: «Non affaticarti, non ti farà bene.»
«Ma scrivere è la mia salute,» risposi.
Lei sorrise con quella dolcezza che sapeva ferire: «Allora sarai sano per sempre.»
Capitolo VII — Trieste nuova
Entrai in ufficio con la cautela di chi torna in casa propria ma non sa se le chiavi funzionano ancora. Le stanze erano le stesse, i mobili identici, persino il vecchio orologio a pendolo continuava a segnare l’ora con quell’aria stanca che gli avevo sempre invidiato. Ma c’era un odore diverso: non di polvere o di inchiostro, bensì di attività. L’attività ha un odore particolare, che i vecchi riconoscono subito perché sa di sudore altrui.
L’Olivi era seduto al mio tavolo, come se fosse sempre stato suo. Non ebbi nemmeno il tempo di provare gelosia: lui mi accolse con un sorriso educato, e quel sorriso mi fece subito capire che la mia autorità era stata archiviata insieme alle pratiche più vecchie.
«Buongiorno, signor Cosini,» disse alzandosi in piedi.
«Buongiorno,» replicai con tono che voleva essere paterno e risultò supplichevole.
«Siamo in un momento delicato,» iniziò, «bisogna riorganizzare. Ho già preso accordi con nuovi fornitori. Ho in mente di puntare su prodotti più richiesti, e naturalmente bisognerà rivedere i prezzi, perché le imposte sono cambiate.»
Annuii. Non avevo ancora capito nulla, ma annuii per non sembrare smarrito.
«Forse,» dissi con la mia voce che tremava un po’, «bisognerebbe prima attendere. Sa, i cambiamenti sono sempre rischiosi.»
Lui sorrise, ma non di quel sorriso che contraddice: di quello che accompagna. «Capisco il vostro punto di vista. Ma oggi non si tratta di scegliere: si tratta di correre. Chi aspetta, perde.»
«Aspettare è sempre stata la nostra forza,» ribattei, improvvisando una filosofia che fino a un momento prima non conoscevo. «La prudenza ci ha salvati più volte.»
«Forse,» rispose lui, «ma quella era un’altra epoca. Ora, chi aspetta non viene nemmeno visto.»
Io mi sentii piccolo. Per difendermi, tentai una sortita: «Non bisogna dimenticare che i clienti amano la stabilità. Se li cambiamo troppo, si spaventano.»
«Non si spaventano, signore,» disse calmo. «Si annoiano. E quando si annoiano, vanno altrove.»
Ci fu un silenzio. Io mi accomodai su una sedia, come se fosse ancora il mio diritto. Lui continuò a scrivere, con quella calligrafia ferma che pareva non aver mai conosciuto esitazioni. Guardandolo, pensai che la sua scrittura era la vera prova del mio tramonto: le mie lettere ondeggiavano come vecchi malati, le sue stavano dritte come soldati.
«Voi siete giovane,» dissi all’improvviso, «e vedete il futuro. Io vedo il passato, ed è un difetto. Ma il passato serve. È un magazzino di errori.»
«Certo,» replicò lui, «ma io preferisco aprire i magazzini di domani. Quelli di ieri sono già stati saccheggiati.»
Avrei voluto arrabbiarmi, ma mi accorsi che aveva ragione. Così mi rifugiai nella mia vecchia arma: il consiglio che non impegna. «Non dimenticate, però, che ogni affare ha due lati: il guadagno e la reputazione. Non basta arricchirsi, bisogna anche sembrare onesti.»
«È quello che sto cercando di fare,» disse, e aggiunse con un lampo negli occhi: «Ma la reputazione non si eredita: si guadagna di nuovo, ogni giorno.»
A quel punto mi arresi. Ma per non sembrare sconfitto, inventai una domanda che voleva sembrare saggia: «E voi, Olivi, non avete paura?»
Lui si fermò, appoggiò la penna e mi guardò. «Paura? Sì. Ma la paura è utile: obbliga a muoversi.»
«Io invece,» risposi piano, «la paura mi obbliga a fermarmi.»
Lui annuì, come se fosse una differenza naturale, come se avessimo appena confrontato due colori diversi. «Allora siamo complementari,» disse.
Io sorrisi, ma dentro sapevo la verità: non eravamo complementari, eravamo incompatibili. Lui correva verso il futuro, io mi trascinavo nel passato. E in mezzo c’era la ditta, che non poteva sopportare due direzioni opposte.
Uscendo dall’ufficio, mi accorsi che pioveva. Trieste ha il talento di cambiare tempo come cambia bandiera. Aprii l’ombrello con lentezza, come un vecchio che firma la sua resa. Pensai: «Io ho parlato, ma lui ha deciso. Questo è il mio nuovo ruolo: dare parole inutili a chi fa i fatti.»
E fu la prima volta che non mi sentii offeso. Perché, in fondo, essere inutili è un sollievo: non si sbaglia più.
Capitolo VIII — Contratto e coscienza
La clausola che avevo firmato insieme all’Olivi — quella che mi concedeva il diritto di consigliare e a lui la libertà di ignorarmi — era diventata la mia ossessione. La lessi e rilessi, come si legge un referto medico che non si comprende: vi scorgevo ogni volta una parola diversa, e tutte le parole mi condannavano.
Un tempo, quando comandavo davvero, la mia coscienza era un lusso. Potevo permettermi di ignorarla, come si ignorano i debiti che tanto nessuno ricorda. Ora, invece, la coscienza era diventata il mio unico impiego: la mattina mi svegliavo non per andare in ufficio, ma per interrogarmi. “Che cosa farò oggi per sembrare utile?” E la risposta, invariabile, era: “Darò un consiglio.”
Il consiglio, però, è un veleno che agisce lentamente. Si dà non per aiutare, ma per dimostrare di esserci. E l’Olivi, con la sua calma, sapeva neutralizzarlo. Mi ascoltava sempre, non mi interrompeva mai, e alla fine annuiva con rispetto. Poi faceva esattamente il contrario. Io tornavo a casa convinto di avere ancora voce in capitolo, e lui tornava a lavorare come se io fossi stato un grammofono acceso in anticamera.
Cominciai allora a riflettere sulla differenza tra contratto e coscienza. Il contratto è un foglio con firme e clausole, che serve a proteggere chi ha più forza. La coscienza è un foglio invisibile che nessuno firma, ma che pesa di più. Io avevo perso il contratto e mi restava solo la coscienza, e per questo mi sentivo più colpevole di quanto fossi.
Scrissi nel mio diario:
“Il contratto mi ha tolto il potere, la coscienza me lo restituisce sotto forma di rimorso. Sono dunque di nuovo padrone, ma solo dei miei errori.”
Una sera Augusta mi trovò assorto a fissare il foglio. «Che fai?» mi chiese.
«Rileggo il contratto.»
Lei sorrise: «E cosa speri di trovarci? Non è cambiato.»
«Sì,» risposi, «ma forse sono cambiato io.»
Lei tacque, e quel silenzio mi colpì più di qualunque frase. Perché Augusta ha un dono: non discutere mai quando ha già vinto.
Il consiglio, poi, divenne un’abitudine domestica. Lo davo anche in casa. Antonia mi raccontava di una sua amica, e io dicevo: «Non fidarti troppo.» Alfio mi mostrava un quadro, e io dicevo: «Forse dovresti dipingere più chiaro.» Valentino parlava di conti, e io dicevo: «Meglio essere prudenti.» Nessuno seguiva i miei suggerimenti, ma tutti annuivano per educazione. Mi resi conto che ero diventato una macchina di consigli inutili: un orologio che segna le ore ma non viene mai guardato.
Fu allora che mi nacque un pensiero terribile: e se la mia vita fosse stata sempre così? Se anche quando credevo di decidere, in realtà non facevo che consigliare me stesso, e non ascoltarmi? Forse i miei affari, i miei successi, persino i miei fallimenti, erano il risultato di questa mia doppia condizione: un uomo che parla a se stesso e poi fa il contrario.
Scrissi ancora nel diario:
“Il contratto è la mia biografia abbreviata. Tutta la mia vita è stata una clausola che mi concedeva il diritto di pensare e agli altri quello di decidere.”
Una mattina provai a ribellarmi. Entrai in ufficio e dissi all’Olivi: «Oggi il consiglio diventa ordine. Faccia come le dico io.»
Lui mi guardò, non sorpreso, e disse con calma: «E qual è l’ordine, signore?»
Mi bloccai. Non avevo nessun ordine pronto. Dissi allora la prima cosa che mi venne in mente: «Rallenti.»
Lui sorrise. «Rallentare oggi vuol dire morire. Ma se volete, posso farlo domani.»
Compresi che mi aveva sconfitto con una frase. Tornai a casa più vecchio di dieci anni.
Da quel giorno, la clausola non fu più un pezzo di carta: fu la mia nuova coscienza. Mi ricordava ogni volta che parlavo inutilmente. Ma nello stesso tempo mi dava un sollievo: ero inutile, dunque innocente. Non sbagliavo più, perché non decidevo nulla.
E pensai, quasi felice: «Forse la vera pace è questa: non essere colpevole di niente perché non si è responsabili di nulla.»
Capitolo IX — Il bilancio morale
Il bilancio morale non si compila in un giorno. È un libro aperto che resta sul tavolo, e ogni sera vi si aggiunge una nota, un appunto, un errore non rettificato. Io lo scrivo senza volerlo, con gli sguardi che do e con le parole che non pronuncio. E la voce in rosso, sempre la stessa, è Valentino.
Un episodio mi torna spesso in mente. Una sera d’inverno, eravamo tutti riuniti in salotto. Augusta sferruzzava, Antonia ricamava, Alfio fingeva di leggere un libro che in realtà usava per nascondere un disegno, io giocavo a sembrare pensieroso. Valentino, come al solito, aveva portato a casa una cartellina di registri. Si mise alla scrivania, accese la lampada e cominciò a scorrere le pagine con quella lentezza che non è lentezza, ma coscienza.
Io lo osservavo, e più lo osservavo più cresceva in me l’irritazione. Non perché sbagliasse: non sbagliava mai. Ma perché non potevo più dirgli nulla. Ogni volta che provavo a commentare, lui rispondeva con un “Sì, signore” che chiudeva la discussione come un coperchio.
Quella sera tentai comunque. «Valentino,» dissi con voce solenne, «non serve controllare tutto. La fiducia è più utile della precisione.»
Lui alzò gli occhi, sorrise, e disse: «Lo so, signore. Ma io mi fido di voi. E proprio per questo controllo.»
Restai muto. Era una frase terribile: la fiducia che giustifica il sospetto. Mi resi conto che aveva ragione, ma la ragione di un genero è un’offesa per un suocero.
Un’altra volta, a pranzo, Augusta gli chiese un parere su un piccolo investimento domestico. Io mi affrettai a intervenire: «Non serve chiedere a Valentino, decido io.»
Valentino mi guardò con la sua calma impenetrabile. «Naturalmente decide lei, signore,» disse. «Io mi limito a fare i conti.»
E prese un foglio, calcolò due cifre, e dimostrò che la mia decisione era sbagliata. Augusta annuì e fece come diceva lui. Io rimasi in silenzio, con la forchetta sospesa a mezz’aria. Non fu la correzione a ferirmi, ma la naturalezza con cui lui la offrì, come se fosse un gesto di cortesia.
Una domenica mattina mi accompagnò a passeggio. Io camminavo piano, lui adattava il passo senza che sembrasse uno sforzo. Dopo un lungo silenzio, gli dissi: «Valentino, ti ho trattato ingiustamente.»
Lui mi guardò con sorpresa, come se avessi detto una sciocchezza. «Ingiustamente? Ma no. Siete sempre stato giusto.»
«No,» insistetti, «un torto te l’ho fatto. E non l’ho mai confessato.»
Lui rise, piano. «Allora non era un torto, signore. Se non me ne sono accorto, non vale.»
Avrei dovuto insistere, ma non ne ebbi la forza. Mi accorsi che la sua risposta era peggiore del rimorso: mi escludeva persino dalla possibilità di confessare.
Ecco la mia condanna: Valentino mi ha sempre trattato con rispetto, anche quando non lo meritavo. E il rispetto, quando è ingiustificato, pesa più del disprezzo. Avrei preferito un litigio, uno sfogo, un’accusa. Ma lui non mi concesse nulla.
Così scrissi nel mio diario:
“Il torto peggiore non è quello che si infligge, ma quello che non si può mai confessare. Io vivo in questo debito: un torto senza credito.”
Il bilancio morale resta dunque aperto. Non ha colonne che tornino, non ha firme né sigilli. È un bilancio scritto con inchiostro invisibile, leggibile solo a me. Ogni giorno aggiungo una cifra, e ogni giorno la cifra si perde. E so che morirò con questo conto irrisolto: non perché sia grande, ma perché è piccolo.
È il paradosso della vecchiaia: i grandi peccati si dimenticano, i piccoli torti restano.
Capitolo X — Alfio e l’arte
Alfio, mio figlio, non parla mai di denaro. Questo lo rende sospetto ai miei occhi: chi non parla di denaro, o non ne ha bisogno, o ne ha troppa fantasia. Lui appartiene alla seconda categoria. Dipinge come si respira, senza domandarsi se qualcuno comprerà mai quei quadri. Io, che ho passato la vita a trasformare tutto in prezzo, non riesco a concepire un gesto che non si traduca in utile o perdita. Per me, un colore senza valore è come una moneta falsa: bello da guardare, ma inutile a spendersi.
Una sera, lo trovai nel suo studio. Aveva il viso sporco di vernice, i capelli arruffati, e davanti a sé una tela quasi finita. Mi invitò a sedere.
«Papà,» mi disse, «questo quadro è per te.»
Guardai. Non c’era somiglianza, non c’era figura. Solo linee spezzate, una macchia scura, un lampo rosso. «E io dove sono?» domandai.
«Sei tu,» rispose serio, «in quel rosso. È il tuo cuore.»
Risi. «Il mio cuore? Da quando in qua lo conosci tu? Io lo conosco poco, e ci vivo dentro da settant’anni.»
«Lo conosco perché lo vedo da fuori,» ribatté. «Tu non puoi.»
Mi fermai. La sua frase mi colpì. Era vero: io, il mio cuore, lo sento battere, ma non lo vedo mai. Lui, che dipinge, pretendeva di vederlo meglio di me. Mi ribellai.
«Senti, Alfio,» dissi con tono più paterno che convinto, «un quadro non nutre nessuno. Non paga una bolletta, non mette pane in tavola.»
«Eppure tu mangi ogni giorno,» rispose lui, «e non per questo sei felice.»
Restai muto. Era una risposta che non lasciava appigli. Per difendermi, mi rifugiai nella filosofia dei mercanti: «L’arte è bella, sì, ma solo se qualcuno la compra. Senza compratore, resta un capriccio.»
Lui sorrise: «E la tua vita, papà, chi l’ha comprata? Non l’hai venduta tu stesso, pezzo dopo pezzo?»
Era crudele, ma vero. Io avevo venduto giorni, anni, perfino illusioni, per ricavarne un utile che ora non trovavo più. Alfio, invece, accumulava tele che nessuno voleva, ma che restavano lì, intatte.
La discussione continuò.
«Tu non capisci, papà,» insistette. «L’arte non serve a niente, e proprio per questo è necessaria. È l’unica cosa che resta quando tutto il resto cade.»
«Sciocchezze da ragazzo,» ribattei. «Anche l’amore non serve a niente, ma tutti lo cercano. E guarda che guai procura.»
«Meglio i guai dell’amore che i conti della banca,» rispose.
Provai a ridere, ma non ci riuscii. Sentivo che mi stava vincendo con la sua inutile logica. Così cambiai tono.
«Sai, Alfio,» dissi piano, «io temo che tu abbia ragione. Temo che i tuoi quadri valgano più della mia vita.»
Lui mi guardò con sorpresa, e disse con dolcezza: «Non è una gara, papà. Tu hai fatto la tua parte. Io faccio la mia.»
«Sì,» replicai, «ma la mia parte è stata un contratto, la tua è un quadro. E temo che tra i due resti più il tuo.»
Allora mi colse una strana tenerezza. Mi avvicinai alla tela, la osservai da vicino. Le macchie che prima mi sembravano senza senso ora formavano una figura: non un volto, non un paesaggio, ma un’ombra che somigliava alla mia solitudine. Mi riconobbi.
«Forse hai ragione,» dissi, «questo sono io.»
Lui sorrise, contento. «Allora finalmente capisci.»
«Capisco,» risposi, «ma non ti perdono. Perché vedermi in un quadro fa più male che non vedermi affatto.»
Lui rise, convinto che scherzassi. Ma non scherzavo. Dentro di me, sentivo che Alfio aveva colto in un attimo ciò che io non ero riuscito a dire in un’intera vita.
Così scrissi nel diario quella sera:
“Ho discusso con Alfio. Lui dipinge la mia verità, io la nego con le parole. Forse, tra cent’anni, resteranno i suoi quadri. Ma i miei consigli, già oggi, non restano.”
E aggiunsi:
“Ho paura che l’arte vinca sugli affari. Sarebbe la mia seconda sconfitta, e la più definitiva.”
Capitolo XI — Grammofono e bontà
Il grammofono è il mio ultimo amico. Non lo dico per scherzo. È il solo che mi ascolti senza interrompermi e che, quando si stanca, smette di parlare invece di contraddirmi. Tutti gli altri, familiari, conoscenti, persino l’Olivi, si comportano come se avessero il dovere di correggermi; il grammofono, invece, mi accetta così come sono: vecchio, stonato e ripetitivo.
Quando lo faccio girare, la casa intera si riempie di suoni che non appartengono a nessuno di noi. Antonia ricama, Alfio dipinge, Valentino legge i conti, Augusta cuce: ciascuno ha la sua occupazione. Io non ho più nulla da fare, e allora mi occupo del suono. Ogni disco è una prova che il tempo si può ripetere. Basta una puntina e la musica torna sempre uguale. Se la vita avesse lo stesso meccanismo, saremmo tutti immortali.
Una sera, ascoltando un valzer, mi sorpresi a pensare: «Come sono buono! Come sono buono!» Non so perché. Forse la musica rende benevoli, come il vino quando non ubriaca. Mi guardai allo specchio e vidi un vecchio con un sorriso indulgente. Ero indulgente non con gli altri, ma con me stesso. Una bontà narcisista, che non produce benefici: ma almeno consola.
Mi accorgo che la musica è l’unica cosa che mi restituisce una parvenza di giovinezza. Non perché mi faccia dimenticare gli anni, ma perché mi fa credere che essi possano danzare. Mentre il valzer gira, anch’io giro: non col corpo, ma con la memoria. Vedo Augusta giovane, vedo i miei figli bambini, vedo me stesso correre dietro agli affari con quella smania che ora mi appare comica. Il grammofono non riproduce solo note: riproduce illusioni.
Un giorno Umbertino entrò nella mia stanza mentre il grammofono suonava. Mi guardò con occhi spalancati e chiese: «Nonno, chi canta?»
«Un morto,» risposi senza pensarci.
Il bambino si spaventò, e io mi affrettai a spiegare: «Un morto che continua a cantare. È questo il miracolo della musica.»
Capì a modo suo, e disse: «Allora anche tu canterai quando sarai morto?»
Io risi, ma dentro provai un brivido. Forse il grammofono è davvero la mia tomba anticipata: una cassa che gira e ripete le stesse frasi.
Augusta, dal canto suo, non sopporta il grammofono. «Fa rumore,» dice. «Disturba la quiete.» Io replico che la quiete è più rumorosa della musica, ma lei non mi crede. Una sera, esasperata, spense il disco a metà. Io protestai: «Non si interrompe un valzer, come non si interrompe un respiro!»
Lei rise: «Non sei tu a respirare, è la macchina.»
E aveva ragione: era la macchina a vivere al posto mio.
Scrissi nel mio diario:
“Il grammofono è il mio confessore. Mi fa credere buono perché non mi corregge. Ogni nota è un’assoluzione.”
E più tardi aggiunsi:
“La bontà che sento in me è un’invenzione del suono. Quando la musica tace, ritorno ad essere l’uomo che ho sempre stato: pigro, sospettoso, ingiusto. Forse è questo il vero valore dell’arte: ci fa credere migliori senza cambiarci affatto.”
Una sera invitai Alfio ad ascoltare con me. Gli dissi: «Vedi, la tua pittura è silenziosa. La mia musica, invece, parla. Siamo pari.»
Lui sorrise e rispose: «La mia pittura resta ferma, la tua musica finisce.»
Non seppi replicare. Forse aveva ragione. Ma pensai: “Meglio finire che restare muti.”
Così continuo a girare i dischi, uno dopo l’altro. Non per ascoltare davvero, ma per illudermi che la mia bontà non sia solo una posa. Forse morirò col grammofono acceso, e non sarà una brutta morte: sarà come addormentarsi in mezzo a una bugia dolce.
Capitolo XII — Augusta
Se un romanzo deve avere un amore, lasciatemi dire che il mio è Augusta. Non per quelle ragioni che infiammano i giovani e guastano i vecchi (le seconde somigliano alle prime, ma hanno meno grazia e più conseguenze), bensì perché Augusta è la mia salute sociale. Io sono la febbre e lei è il termometro; io alzo il mercurio, lei registra e poi chiude la finestra. Senza di lei, la mia vita non sarebbe stata un’esistenza, ma un esperimento; con lei, è stata almeno un orario ferroviario, con i suoi ritardi e le sue coincidenze.
Non s’inganni chi crede che “salute sociale” sia un complimento. È una diagnosi. Quando io mi siedo alla scrivania per redigere il diario, Augusta appare col suo tacquino — lo chiama “il piccolo bilancio” — e mi obbliga a praticare con la realtà: bollette da pagare (acqua, luce, un misterioso canone che ricompare come la stanchezza), abbonamenti da rinnovare, spese da giustificare. Io comincio a filosofare: “Cara, il denaro è un simbolo, e i simboli…” — “I simboli si pagano il 15 del mese,” risponde, e pone fine alla mia teoria con una parola di meno. È la sua arte: togliere la parola superflua. Io accumulo virgole; lei le strappa come erbacce.
Un giorno mi sorprese intento a scrivere: avevo appena composto una pagina sulla nobiltà del rinvio — virtù dei prudenti e vizio dei pigri — e me ne compiacevo, perché ero riuscito a far credere alla sintassi ciò che la coscienza non credeva affatto. Augusta scorse il foglio e disse: “Bello. Ma intanto, oggi, chiama l’ufficio delle acque.” Io risposi che l’acqua non fugge; lei replicò con una gentilezza feroce: “Ti smentisce ogni rubinetto.” Telefonò lei. Quella fu la prima grazia della giornata: la realtà, grazie ad Augusta, si comportò come se fosse possibile.
Non ho mai pensato che Augusta mi amasse con quella passione che brucia le tende; mi ama come si ama un giardino: potandolo in tempo. Mi pota i discorsi e mi regola le stagioni. Sa il momento giusto per interrompermi — di solito un secondo prima di quel punto in cui il mio ragionamento, avendo esaurito le prove, passerebbe alla mistificazione — e allora dice: “Basta, Zeno,” (per lei resto sempre quel nome: un modo per impedirmi di diventare qualcun altro) “ti fai male.” Così, mentre io mi sento un filosofo interdetto, lei si comporta da infermiera di vocazioni.
In casa, Augusta ha un gesto per ogni mia debolezza. Quando mi nascondo dietro il grammofono — la macchina che mi assolve con i valzer — lei abbassa appena la puntina, quel tanto che basta perché il disco non salti e io non possa dire che il destino mi perseguita. Quando mi persuado di avere dolore al fegato, prepara una camomilla che non guarisce nulla ma mi toglie il diritto di lagnarmi. Quando mi sorprende in corridoio a cercare (senza cercarla davvero) Renata, la bambinaia, alza lo sguardo non verso di me ma verso l’orologio; e con quel gesto mi ricorda che la tentazione è quasi sempre un errore d’orario.
Una sera le dissi, con quella gravità da commedia che mi piace adottare quando voglio essere preso sul serio: “Augusta, credo che Belzebù mi aspetti. Non in chiesa, bensì in qualche anticamera più vasta. Un vecchio, quando non ha più negozi da concludere, si mette in società con l’oltretomba.” Lei, senza alzare lo sguardo dal rammendo, rispose: “Allora troveremo un confessore discreto.” “No,” obiettai subito, “il confessore ascolta; io voglio un avvocato: la mia metafisica esige firme.” Lei sorrise come si sorride ai bambini che vogliono il cappello nuovo per andare a letto: “Prenderemo tutte e due le cose. Il cielo per prudenza, la firma per decenza.”
Il giorno dopo, a colazione, comparvero sul tavolo due biglietti: uno per il padre Tommaso, che confessa senza fruscii; l’altro per l’avvocato Bitonti, la barba che sembra un archivio. Augusta aveva fatto quello che io non so fare: mettere in calendario l’eternità.
Andai prima dall’avvocato, perché il mio aldilà preferisce l’inchiostro. Bitonti ascoltò la mia esposizione con la pazienza di una cassaforte; tutti i suoi “sì” avevano il suono del ferro. “Voglio redigere,” dissi, “non un testamento materiale — quello, con ciò che ho, è presto fatto — ma un testamento morale: una scrittura che certifichi le intenzioni, le esitazioni, perfino i rimorsi.” Egli tossì, come tossiscono i mobili quando li si sposta: “La legge, signor Cosini, non registra i sentimenti.” “E allora,” ribattei, “registri almeno le esitazioni: sono state più frequenti degli atti.” L’avvocato prese nota, ma capii che scriveva per cortesia. Proposi una clausola: “Mi dichiaro responsabile solo dei consigli non seguiti.” Bitonti mi guardò con benevolenza: “È una novità del diritto.” “È il diritto dei vecchi,” spiegai. Si limitò a proporre data e firma. Sulla via del ritorno dissi tra me: la legge è il modo in cui i vivi fingono di rassicurare i morti.
Nel pomeriggio, Augusta mi condusse da padre Tommaso. Chiesa fresca, confessionale con quell’odore di legno e segreto. Entrai deciso a non confessare nulla: volevo consigli giuridici anche lì. Padre Tommaso parlava a voce bassa, come se avesse paura di risvegliarmi. “Ho un debito con la mia coscienza,” dissi. “Lo so,” fece lui, come se avesse letto il mio diario. “Ma non c’è ricevuta.” “Appunto,” replicai, “per questo ho visto — o credo di aver visto — l’annuncio di un incontro con Belzebù.” “Non è un creditore,” disse piano, “è un usuraio.” Poi aggiunse l’unica frase che valga da assoluzione per i vecchi: “Si può pagare in ritardo.” La lentezza è la mia unica ricchezza: uscii dalla chiesa con un capitale nuovo, la dilazione.
La sera, in casa, Augusta mise ordine alle due carte: la mia firma dall’avvocato e il mio silenzio dal confessore. “Hai fatto pace?” chiese. “Ho fatto pratiche,” risposi. Lei ripiegò i fogli come si ripiegano le lenzuola. “La pace è un’abitudine,” disse. “Si rifà il letto tutti i giorni.” E fu allora che compresi la differenza tra noi: io cercavo garanzie, lei praticava routine. Io volevo un sigillo; lei teneva il coperchio sulle pentole.
Non crediate che Augusta sia solo amministrazione; è anche un’estetica. Decide il colore delle tende, ma senza chiedermi se le preferisco verdi o grigie: sceglie quello che non mi farà sbagliare. Talora mi pare che, senza di lei, sarei diventato monocolore. Lei mi salva con il beige: è la misericordia della casa. Quando esco, mi sistema il cappotto sulle spalle con un gesto che dice: “Rappresentaci.” Io, rappresentante di chi? Di lei, naturalmente. Di quella parte della mia vita che ha sempre pagato in contanti mentre io emettevo cambiali sull’avvenire.
Augusta tollera perfino i miei piccoli imbrogli con una sorta di amministrazione della truffa. Le dissi una volta: “Ho promesso a me stesso di non mentirti mai.” “Allora,” rispose, “promettimi anche di non crederti sempre.” Quel giorno imparai la sua contabilità: non somma le verità, sottrae le illusioni, e l’avanzo è sufficientemente vero da non farci fallire.
Con Renata, per esempio, non mi ha mai rimproverato. Ha spostato l’orario. Ha fatto in modo che non ci trovassimo più negli stessi corridoi. La morale di Augusta è una tabella oraria: non proibisce, sposta. E questa intelligenza della distanza è stata la mia salvezza. Io avrei voluto una grande scena (sono un attore che esige il suo terzo atto); lei mi ha dato un foglio con i turni della cameriera. Ogni passione si spegne quando incontra una lista.
Anche con l’Olivi, Augusta ha esercitato la sua diplomazia taciturna. “Non contraddirlo, Zeno,” disse una volta, quando tornai indignato perché il giovane aveva trasformato il mio consiglio in un ornamento del suo piano. “Se vuoi fargli male, lodalo,” soggiunse. Seguii il precetto e, con quella lode, ottenni di essere ignorato con più delicatezza. Di tutte le astuzie, questa è la più femminile: trasformare il fendente in carezza e lasciar che la vittoria dell’altro ti pesi meno di una sconfitta rumorosa.
Accade, talvolta, che Augusta si sieda accanto a me quando il grammofono gira (lo sopporta più di quanto confessi). Io mi dico: “Come sono buono!” e lei, senza guardarmi, spegne a tempo, proprio su quella cadenza che mi avrebbe concesso l’ennesima autoassoluzione. “Perché?” chiedo. “Perché sei già buono abbastanza per oggi,” risponde. Mi regola la dose di bontà come si regola una medicina. Augusta sa che ogni eccesso — anche di virtù — produce tossicità.
Il giorno che le confessai (ma direi meglio: annunciai, come si annuncia una cattiva stagione) che Belzebù mi aspettava, lei non ebbe paura e non ebbe fede. Ebbe ordine. “Prima l’avvocato,” disse, “così le colpe hanno un indirizzo; poi il confessore, così le colpe hanno una via d’uscita.” Io, che volevo un cospetto terribile, mi ritrovai con due appuntamenti nel taccuino. Fu allora che capii: Augusta è la mia parrocchia laica. In lei il peccato diventa tassa e la penitenza, ricevuta.
Se una volta ho avuto la tentazione sciocca di immaginarmi senza Augusta (bisogna pur misurare le miserie proprie), l’ho subito cassata: mi sono visto in una casa dove le bollette scadono come i denti, le conversazioni non finiscono mai e ogni pensiero produce interessi di mora. Il senza Augusta è l’inferno dei distratti: un luogo dove si parla al confessore senza confessare e all’avvocato senza firmare. Con lei, invece, io firmo e taccio: e in quelle due azioni sono più vicino a una salvezza che in tutte le mie pagine.
La sera, prima di dormire, Augusta controlla le luci (tre interruttori: uno per la stanza, uno per il corridoio, uno per la coscienza) e mi domanda, con la sua voce senza interrogativi: “Domani?” Io rispondo secondo la mia indole: “Domani vedremo.” Lei annota sul suo tacquino: “Domani — vedere.” E il giorno dopo, davvero, io vedo. Non visioni, ma scadenze.
Se un romanzo ha bisogno d’un amore, il mio, l’ho detto, è Augusta; ma non quella dei fidanzati e delle promesse: la mia Augusta è il controfirmare della vita. Senza la sua firma, i miei giorni resterebbero bozze. Con la sua, persino il mio desiderio d’incontrare Belzebù si trasforma in appuntamento civile, dal quale si può tornare a casa in tempo per la cena.
E se — come temo e come desidero — un giorno mi troverò davvero davanti a quel giudice sgraziato, non sarò solo. Entrerò con due fogli nel taschino: la carta dell’avvocato (inutile, ma decorosa) e il biglietto del confessore (discreto, ma senza firma). E dietro, invisibile, entrerà Augusta con le bollette pagate. Che cosa può farmi l’inferno, a un uomo cui hanno già chiuso la luce alla sera, con prudenza, e riaperta al mattino, con solerzia?
Così, quando domani (che nel mio vocabolario è sempre oggi con meno scuse) mi verrà voglia di scrivere una pagina definitiva su di lei, non dirò “ti amo”, che è una parola in ritardo; dirò “grazie”, che è una parola in anticipo. Perché la gratitudine è l’unica passione che Augusta consente: non brucia le tende, ma le spolvera.
Capitolo XIII — La visita
Il dottore, lo confesso, mi diverte. Non come medico, ma come personaggio. Viene in casa con la sua borsa di cuoio lucida, più importante di lui: se un giorno dimenticasse la borsa, nessuno lo riconoscerebbe. Augusta lo riceve come un vescovo: gli sistema la poltrona, gli offre un bicchiere d’acqua, gli prepara perfino il tovagliolino. Io, invece, lo considero un attore che recita sempre la stessa parte, con qualche variazione sul tono della voce.
«Come va, signor Cosini?» chiese entrando.
«Benissimo,» risposi. «Ma non si fidi: io mento sempre.»
Sorrise, come fanno i medici quando credono che la bugia sia un sintomo.
Cominciò la solita liturgia: polso, respiro, lingua. Poi mi chiese: «Mangia regolarmente?»
«Troppo,» dissi. «E infatti mi ammalo. Ma se mangiassi poco, mi ammalerei di più. Non vede che la medicina è già fallita?»
Non rispose, annotò.
«Dormite bene?»
«Dormo troppo. Il problema è che dormo da sveglio. Mi capita di giorno, davanti al grammofono: chiudo gli occhi e sogno senza dormire. Come lo chiama, dottore, questo stato?»
«Stanchezza,» disse.
«Io lo chiamo vecchiaia,» replicai.
Poi toccò la domanda più insidiosa: «Ha dolori particolari?»
«Sì,» dissi. «Alla coscienza.»
Alzò le sopracciglia, come se non fosse materia medica. Io insistetti: «Non può darmi una medicina anche per quello? Una pillola che mi tolga il rimorso, come lei mi dà quella che mi regola lo stomaco?»
Lui rise, incerto. «Per quello ci vuole la fede.»
«Io ho il grammofono,» ribattei. «Vale come sacramento?»
Annotò ancora, senza rispondere. Era evidente che non sapeva se ridere o preoccuparsi.
Decisi allora di rovesciare i ruoli. «Dottore,» dissi, «ora tocca a me visitarla.»
«A me?»
«Sì. Lei viene sempre a interrogare la mia salute. Ora sono io che interrogo la sua. Dorme bene?»
Lui esitò, poi rispose: «Non abbastanza.»
«Mangia regolarmente?»
«Troppo poco.»
«Ha dolori particolari?»
«Le ginocchia.»
Io sorrisi trionfante. «Vede? È più malato di me. Solo che io lo ammetto, lei no.»
Augusta intervenne per zittirmi: «Smettila di tormentare il dottore!»
Ma io non mi fermai. «Sa cos’è, dottore? Io non temo la morte, temo la visita. Perché la visita è la prova che non sono ancora morto, e quindi devo continuare a fingermi vivo.»
Il dottore rise, stavolta sinceramente. «Signor Cosini, voi avete più spirito che salute.»
«E voi,» replicai, «avete più salute che spirito. Siamo pari.»
Quando se ne andò, Augusta mi rimproverò: «Lo prendi sempre in giro.»
«Ma no,» dissi. «Lo aiuto. Lui viene a curarmi, io lo curo. La salute vera è la reciprocità.»
Scrissi poi nel diario:
“Il medico non mi guarisce: mi conferma. Ogni volta che mi trova vivo, mi illude che resistere sia guarire. Io invece so che resistere è solo posticipare. La medicina è un’arte della procrastinazione.”
E aggiunsi:
“Il giorno in cui non verrà più, saprò che la sua ultima diagnosi sarà stata perfetta.”
Capitolo XIV — Il bilancio finale
Ho passato la vita a compilare bilanci: conti di magazzino, registri di fornitori, somme di utili e perdite. Sempre numeri, cifre, totali che pretendevano di chiudere un ciclo. Ora, quando non ho più affari, mi trovo a fare l’ultimo bilancio: quello della mia esistenza. E come ogni bilancio che si rispetti, non torna.
Non torna con Augusta. Lei mi ha dato più di quanto io abbia restituito. La sua pazienza è stata la mia vera ricchezza, ma non l’ho mai registrata a credito. Ho sempre considerato il suo silenzio come un dovere, non come un dono. Eppure, quando penso a chi mi sopravviverà, so che sarà lei a garantire che io resti un ricordo dignitoso, non un fastidio.
Non torna con Antonia. Ho lasciato che la sua bontà fosse la mia scusa. Ogni volta che sbagliavo, lei sorrideva; e io interpretavo quel sorriso come assoluzione. Ma non era un’assoluzione, era pietà. Ho vissuto sotto il segno della pietà di mia figlia, e questo pesa come un debito che non potrò mai saldare.
Non torna con Alfio. Ho sempre disprezzato la sua arte come inutile, ma in fondo era la sua sincerità che non sopportavo. Io ho passato la vita a dipingermi bugie per sopravvivere; lui ha dipinto la verità che non volevo vedere. Temo che i suoi quadri mi sopravviveranno più delle mie memorie.
Non torna con Valentino. Ho già scritto del torto che gli inflissi, e che non ho mai confessato. Ogni volta che lo guardo, vedo la voce in rosso sul registro della mia coscienza. Non la cancellerò mai: resterà lì, come una cifra che impedisce la chiusura del bilancio.
Non torna nemmeno con Umbertino. Avrei voluto essere il suo maestro, insegnargli qualcosa, lasciargli almeno un motto. Invece lui insegna a me: mi mostra che la vita è fatta di nomi semplici, di cose immediate. Io gli offro discorsi, lui mi offre una sedia. Ed è lui ad avere ragione.
E poi non torna con me stesso. Ho creduto di vivere, ma in realtà ho sempre aspettato. Aspettavo di diventare ricco, aspettavo di guarire, aspettavo che gli altri mi riconoscessero, aspettavo che la coscienza smettesse di accusarmi. Ho aspettato tanto che ora mi accorgo che l’unica cosa che ho davvero posseduto è stata l’attesa.
Scrissi nel diario:
“Il bilancio finale è sempre in perdita. Non si chiude con un utile, ma con un debito. L’unico credito che ci resta è la morte, che paga tutti i conti perché li annulla.”
Augusta, vedendomi assorto, mi chiese: «Che fai?»
«Compilo il bilancio della mia vita.»
«E com’è?»
«In rosso.»
Lei rise, ma con quella risata che consola più che contraddire. «Allora sei come tutti gli altri.»
E forse aveva ragione. Tutti gli uomini finiscono in rosso, perché nessuno restituisce quanto ha ricevuto.
Così chiudo questo bilancio senza chiuderlo. Non so se ho vissuto bene o male, se sono stato un marito fedele, un padre giusto, un uomo onesto. So soltanto che ho vissuto. E forse è questo, in fondo, l’unico saldo che conti.
Capitolo XV — Il sogno di Belzebù
Stanotte ho sognato Belzebù. Non un re dell’inferno in fiamme, ma un funzionario di provincia, come quelli che ho visto tutta la vita in uffici grigi, con scaffali di scartoffie e stufe che fumano di più che non riscaldano. Soltanto, al posto della faccia aveva una testa di maiale mozzata, e dalla bocca spalancata uscivano vermi bianchi, lenti e metodici. Essi si agitavano come parole che non finiscono mai, come i miei consigli sempre ignorati.
«Signor Cosini,» mi disse la testa, con voce che era un brusio di larve.
«Zeno,» risposi io, per abitudine.
«Zeno, sì: quello della coscienza. È rimasta?»
E sorrise: non con le labbra, ma con uno scolo di vermi che parevano ridere.
«Finalmente,» mi disse con un sorriso cortese, «era ora che arrivaste. Vi ho atteso a lungo.»
Io mi inchinai, con l’educazione che si deve a chi comanda. «Non credevo di aver tanto merito da essere atteso da voi.»
«Merito?» rise. «Ma io non premio. Io ricevo. Sono il contabile delle vostre omissioni.»
Mi fece sedere a un tavolo, e davanti a me apparve un enorme registro. Lo sfogliò lentamente. «Ecco,» disse, «i vostri affari. Sapone, contratti, consigli. Un utile modesto, molte perdite. Ma questo non mi riguarda. Io non guardo ai soldi.»
«E a cosa guardate, allora?» domandai tremando.
«Ai rimorsi,» rispose. «Quelli non si svalutano mai.»
Cominciò a leggere. «Avete escluso Valentino dal merito di un accordo.»
Io protestai: «Sì, ma era solo per orgoglio.»
«Appunto,» disse. «L’orgoglio è la mia valuta.»
«Avete disprezzato l’arte di vostro figlio Alfio.»
«Ma non la capivo!»
«Ignoranza non è assoluzione,» ribatté, segnando una cifra in rosso.
«Avete ingannato vostra moglie con piccoli trucchi.»
«Lei sapeva e taceva.»
«E il suo silenzio pesa più della menzogna,» concluse.
Alla fine richiuse il registro con un colpo secco. «Ecco il bilancio finale. Non torna.»
Io protestai: «Erano peccati piccoli, sciocchezze da vecchio.»
Provai un’altra difesa: «Ma almeno ho amato!»
«E ho sofferto!» gridai.
Allora la testa scosse il muso gonfio, e dalla gola colò un grumo di larve: «La sofferenza non ti scusa: serve solo a intenerire la carne.»
Guardavo quella testa e sentivo il tanfo della mia fine. Mi accorsi che in quelle orbite vuote non c’era nulla da leggere, tranne il mio stesso riflesso: anch’io senza sguardo, anch’io pronto a marcire.
«Qual è dunque la mia pena?» domandai con voce fievole.
Il coro tacque. Poi un solo verme, più lungo, uscì lentamente dalla bocca e parlò con chiarezza:
«La tua pena è la ripetizione. Rivivrai le tue esitazioni, i tuoi buoni propositi, le rinunce ornate da ragioni eccellenti. Potrai correggere, ma sceglierai di commentare. Questo è l’inferno: raccontare la vita senza più pretesti.»
Epilogo
Quando mi svegliai dal sogno di Belzebù, la stanza era vuota, il grammofono taceva. Non restava che il mio cuore, che batteva con ostinazione, come un orologio che nessuno si ricorda più di caricare.
Mi avvicinai al tavolo e aprii il quaderno. La penna tremava, ma scrissi lo stesso. Perché se il corpo è condannato ai vermi, la scrittura è almeno il tentativo di ingannarli: mettiamo le parole sulla carta come carne finta, e speriamo che i vermi non se ne accorgano.
Scrissi:
“Ho visto la mia fine. Non fiamme, non catene, ma carne che marcisce. Nessun tribunale, nessun giudice: solo un maiale morto che mi assomigliava. Ma io ho ancora la penna. E finché scrivo, i vermi aspettano.”
Poi chiusi il quaderno e sorrisi. Forse era una bugia, ma era l’ultima bugia che potevo permettermi. E capii che la scrittura non è salvezza né dannazione: è soltanto un ritardo, come tutte le cure, come tutti i consigli, come tutta la vita.
Il grammofono riprese a suonare, piano. Io mi addormentai ascoltando un valzer, e mi parve che anche Belzebù, da qualche parte, fosse costretto a ballare con me.